Ritorniamo al cinema
Recentemente ho avuto l'opportunità di vedere dall’alto di un palazzo un vecchio cinema abbandonato a Cava e ho notato in esso alcuni rulli di pellicola di film, appoggiati in un deposito, dietro il grande schermo.
Sono rimasto sorpreso nello scoprire la quantità di materiale che era depositato, come se il tempo si fosse fermato all’improvviso e ho realizzato che questi rulli erano l’ennesima prova di una vulnerabilità ricorrente, la stessa che ha messo in pericolo il mondo cinematografico: la crisi del cinema causata dal Covid-19.
Nei mesi scorsi, l'industria cinematografica è stata messa in ginocchio dalla pandemia. Molti cinema indipendenti e locali sono stati costretti a chiudere, mentre le grandi catene cinematografiche hanno subito gravi perdite. I film sono rimasti senza un pubblico, ridotti a mere opere d'arte da guardare sul grande schermo, sono stati spesso rimandati più volte con la speranza di una ripresa del cinema.
Ho pensato alla bellezza del cinema e non solo. Amo molto la fotografia e la fotografia del cinema è un'arte in sé. Ogni scena, ogni inquadratura, ogni pezzo di azione e ogni immagine è composta con cura per presentare una storia visiva magica. In particolare la fotografia del cinema si è evoluta in modo significativo nel corso degli anni, grazie alla tecnologia sempre più avanzata, creando mondi fantastici che una volta erano considerati inimmaginabili. Ogni volta che vado al cinema, anche se raramente, lo faccio per divertirmi, per emozionarmi, per vedere questi mondi fantastici.
Abbiamo bisogno ora di evasione, di allontanarci dal quotidiano per respirare in un mondo capace di regalarci emozioni forti.
Non dimentichiamo che il cinema, che è una forma d'arte, di comunicazione e di intrattenimento, è anche una forma di condivisione.
Sediamoci in una sala cinematografica assieme ad altre persone che condividono un' esperienza emozionale: si creerà una vera e propria comunità, uno spazio di condivisione e vincolo in cui tutti sono ugualmente coinvolti.
Il cinema ci toccherà il cuore.
Una social-amicizia
Recentemente mi è stato chiesto di scrivere una riflessione sui miei compagni di scuola di Liceo e, passeggiando qualche giorno fa per la strada alberata di Corpo di Cava, ho notato su un muro semi sgretolato un grosso rettangolo bianco con alcune scritte sbiadite che i raggi del sole hanno indissolubilmente cancellato: era una impronta dei tempi andati, del periodo del fascismo, dove vi erano state scritte di sicuro frasi inneggianti alla salvezza della patria o alla vittoria in guerra. Si intravedevano ancora alcune parole, ma il messaggio ormai non era più comprensibile.
Che collegamento c’è tra le due cose? Nel guardare quella vecchia “pubblicità” sul muro, non so per quale oscuro motivo, sono stato portato improvvisamente a pensare all’amicizia ed in particolare il pensiero è andato subito proprio ai miei compagni della III A del Liceo. I ricordi si sono riattivati immediatamente, pensando alla nostra giovinezza e a tutto quello che essa ci ha regalato e, nonostante siano passati tantissimi anni dalla “notte prima degli esami”, la nostra amicizia è ancora viva e per nulla sbiadita, come invece lo sono quei rettangoli bianchi sulle mura del villaggio cavese.
Cosa tiene uniti ancora molti di noi è un mistero: abbiamo una famiglia che ci tiene molto occupati, abbiamo avuto disavventure, lutti, alcuni sono diventati nonni, abbiamo superato molti ostacoli per il lavoro e la salute nella nostra vita: ma tutti noi non riusciamo a distaccarci da quelli che, forse, sono stati i nostri primi reali amici, i compagni di Liceo.
Non sto qui a raccontare quegli anni, gli anni Settanta: lo ricordiamo spesso in quei pochi incontri che abbiamo avuto “in presenza” negli ultimi decenni, parlando dei docenti, delle gite, dei capi di abbigliamento che indossavamo, delle follie nell’ora di ricreazione, delle stranezze di alcuni di noi, delle odiose versioni di greco e di latino, delle prime discoteche frequentate, degli incontri al Club Universitario, degli intrecci amorosi e persino del professore che, forse, la materia da insegnare la conosceva ben poco e che metteva un “2” perché magari gli stavi antipatico.
Ma una cosa ci ha unito negli ultimi tempi (e può sembrare astruso per la nostra generazione post sessantottina): le nuove tecnologie, l’uso dei cellulari. Si, proprio i telefonini. Qualcuno ha avuto l’idea di creare una chat dedicata a noi studenti della III A del "Marco Galdi" su una social-app, che ormai tutti usano e che per noi,ormai attempati ex liceali, è attiva già da qualche anno.
Magari soltanto con un "buongiorno" di pochi, ma il “buongiorno” c'è sempre. E' un buongiorno che a volte ci fa compagnia, che ci fa sentire per qualcuno di noi forse meno soli, ma soprattutto che ci tiene vivi nell'amicizia. Non mancano le polemiche e le punzecchiature, le battute sagaci di qualcuno o il vago accenno a problemi personali, mai indicati chiaramente. Ma l’importante è che ci siamo, ci siamo quasi tutti: magari leggiamo soltanto quello che si scrive, magari non lo leggiamo tutti i giorni, perché presi da tanti impegni e da una vita spesso vorticosa.
Lutti, feste, compleanni (ormai le candeline sono più di sessanta!), battesimi, matrimoni dei figli, qualche foto di gruppo familiare. Ma tutto ciò che leggiamo o scriviamo su di noi quasi ogni giorno (con qualche pausa temporale) è splendido e confortante, anche se è una semplice considerazione, una colorata gif o gli auguri per il Santo Natale. Perché ci fa comprendere che un filo ci unisce ancora. C'è ancora la volontà di far conoscere a quell’ amico, al tuo vecchio compagno di scuola, un minimo della tua vita, con discrezione e senza insistenza, con la consapevolezza che lui ti capirà e ti potrà stare, anche se solo virtualmente, sempre vicino.
Dal libro “Porticando Liceo. Più di 100 storie scritte a più di 100 mani” ed.AreaBlu,2023
La ragazza del cellulare
In questi giorni si disserta sui social e sulla stampa del quadro del 1860 “L’attesa" del pittore e scrittore austriaco Ferdinand Georg Waldmüller, noto anche con il titolo "Domenica mattina”: in una giornata estiva, un ragazzo con le rose aspetta il suo amore all'ombra della foresta. Venendo da biondeggianti campi ondulati, la ragazza si avvicina al bordo appartato della foresta. Entrambi indossano i vestiti della domenica. Mentre il ragazzo la guarda speranzoso, la ragazza contempla qualcosa che sembra un cellulare. Il dipinto è strettamente correlato ad un altro quadro del pittore, "L'incontro", in cui la storia continua e la coppia appare in un tenero abbraccio all’inizio del bosco.
In realtà, il quadro di Waldmüller non mostra una ragazza dell’800 che legge un cellulare, ma si tratta solo di una reinterpretazione contemporanea del famoso dipinto.
Personalmente, trovo che la reinterpretazione sia interessante e provocatoria, in quanto mette in evidenza la rapida evoluzione della tecnologia e la sua crescente influenza sulla nostra vita quotidiana. Inoltre, il fatto che il soggetto del dipinto sia una giovane donna che guarda lo schermo del telefono, potrebbe essere visto come una critica sul modo in cui la tecnologia sta cambiando i ruoli di genere e la percezione della bellezza femminile.
In generale, questo dipinto ci dà la possibilità di riflettere sull'impatto della tecnologia sulla nostra cultura e sulla nostra società, ma anche sulla necessità di trovare un equilibrio tra l'uso della tecnologia e il mantenimento di un senso di connessione umana e di apprezzamento per le cose che ci circondano.
Tra lettura della ragazza su uno smartphone o di un libercolo, forse in questo caso una scrittura sacra (considerato che è una domenica e che si intravede nel quadro il filo di un rosario), c’è un'altra valutazione da fare. Abbiamo due esperienze diverse tra loro.
La lettura di un libro cartaceo può essere più piacevole e coinvolgente, con una consistenza fisica che lo rende più tangibile. Inoltre apprezziamo anche l'odore della carta e l'atto stesso di sfogliare le pagine.
Pensiamo ora alla lettura di un testo su smartphone: essa può risultare più comoda e accessibile. Pensiamo a cio’ che ci consente fare oggi la tecnica: è possibile avere molti libri a disposizione sul proprio cellulare senza occupare spazio fisico, e si possono facilmente cercare e annotare i passaggi interessanti.
Io stesso ho molti libri scaricati dalla rete sul mio, ma devo ammettere che alla fine compro il libro cartaceo: la lettura sullo schermo mi annoia, mi affatica maggiormente gli occhi e mi genera stanchezza più velocemente rispetto alla lettura su carta. Per non parlare delle notifiche provenienti da qualche applicazione!
Meglio sedersi in un bel parco o sdraiati sulla poltrona di casa ed entrare, attraverso la lettura, in un'esperienza unica e incredibilmente gratificante. Si ha la possibilità di viaggiare in luoghi lontani e immaginari, di incontrare personaggi straordinari e di vivere avventure che altrimenti sarebbero impossibili. La lettura può trasportarci in un'altra epoca, in un'altra cultura e in un'altra vita.
Ci allontaniamo dalla frenesia della vita quotidiana e prendiamo del tempo per noi stessi, per riflettere e per rilassarci. Leggere ci aiuta a sviluppare la nostra immaginazione, la creatività e l'intelligenza emotiva, e ci insegna a comprendere meglio il mondo che ci circonda.
Ma forse la cosa più bella della lettura è la sensazione che si prova quando si termina un libro. Quel senso di soddisfazione e di realizzazione è unico e indimenticabile e fa parte delle piccole gioie della vita!
La potenza del sorriso gitano
Sicuramente avrete notato, soprattutto in queste mattine primaverili, la presenza di una famiglia di gitani che quasi tutti i giorni si esibiscono con la loro fisarmonica sotto i portici della città.
Sono una giovane famiglia,con un piccolo bambino e il bel carattere e soprattutto il loro sorriso costante sono diventati una presenza familiare per molti residenti e visitatori.
La loro musica è coinvolgente, e spesso si possono ascoltare brani appartenenti al repertorio classico napoletano e mondiale. Dal valzer di Strauss alla tarantella napoletana, il loro repertorio è ampio e variegato e la loro naturalezza nell'esecuzione ci fa pensare che suonino da anni e anni, nonostante la giovane età.
Oltre alle loro abilità musicali, quello che rende davvero speciale questa gitani è lo spirito che portano con loro: sia durante le loro performance che nelle loro interazioni quotidiane, emanano una gentilezza e un rispetto per tutti. A volte la loro musica è accompagnata da un ballo e si creano dei veri e propri spettacoli a cui si uniscono i passanti, soprattutto i bambini.
E' un momento di allegria e spensieratezza, che non puo' far altro che mettere buon umore. Non si tratta solo di divertimento: l'energia che queste persone trasmettono è contagiosa e ha il potere di sollevare l'animo: è raro non ritrovarsi a sorridere e a salutarli quando si incontrano nel Borgo.
Sono dei tesori cittadini e forse siamo fortunati ad avere queste persone nella nostra comunità. Quelle poche note musicali hanno dato anche stamane un po' di allegria al nostro tran tran quotidiano.
Cava e gli armeni
Cava de’ Tirreni come tante altre località nel nostro Paese mantiene delle tracce della presenza armena e ancora oggi abbiamo famiglie di origine armena residenti.
La presenza, almeno in Italia, del popolo armeno è una presenza prettamente di origine medievale: si creavano delle comunità, soprattutto nelle località di mare, vicino ai porti, dove i commercianti armeni venivano a trattare i loro affari.
Si erigevano, poi chiese, perché la Chiesa e la fede cristiana degli armeni è sempre stato un motivo aggregante, così come l'alfabeto. Di queste presenze c'è traccia in tante località italiane. Ci sono molte chiese dedicate agli armeni: San Bartolomeo degli Armeni a Genova, ce ne sono a Roma, a Venezia con l'isola di San Lazzaro.
Armeni commercianti, ma anche monaci, eremiti, ed è interessante sapere che alla fine del '600 furono anche a Cava de’ Tirreni nella chiesa di Sant'Elena in località Croce.
La presenza armena è testimoniata dalla targa alla lapide che si trova scritta sia in italiano che in armeno.
QUI GIACE SEPOLTO FRA GIOVANNI DI GIOVANNI DI DJULFA, EREMITA DALLA PERSIA PER INGIUSTA CAUSA, RESTAURATORE DELLA CHIESA E CELLA DELLA MONTAGNA DELLA CAVA DI SANTA CROCE. MESE DI NOVEMBRE 1148 (*1699)
La datazione del novembre 1148 è dovuta alla diversità del calendario armeno. Per avere la giusta data va aggiunto 551 (capodanno armeno) e arriveremo all’anno 1699.
Sulla targa, si parla della località di Djulfa, da cui veniva l'eremita Giovanni. Djulfa si trovava in Persia, in una località che adesso si trova al confine tra Iran e la Repubblica autonoma Armena, che fa parte dell'Azerbaigian e che purtroppo per gli Armeni è tristemente nota. In questa località quasi desertica, montagne rocciose non lontano da Djulfa, c'era una distesa di khachkar, letteralmente croce di pietra, cippi funerari decorati in modo unico. Sono delle stele di pietra tipiche armene, anche patrimonio mondiale dell'UNESCO. I khachkar erano alcune migliaia, di origine medievale, che erano state risparmiate da tutte le dominazioni che c'erano state, proprio perché erano un esempio di importanza artistica. Purtroppo all'inizio nel 2005 l’esercito azero ha distrutto completamente con le ruspe tutta la zona e il cimitero cristiano medievale, contenente centinaia di lapidi finemente scolpite del valore artistico e culturale inestimabili.